Il sedano, buttato in pentola, v’incontrò la culatta del bue. Ne venne un brodo: ch’ebbe succhi e pepsine dalla culatta del bue, e il gusto e il profumo del sedano.
Questa favoletta ne ammonisce, o uomini battiferro, a non dileggiare gli scrittori.
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Il beccafico vide quella natura morta del buonissimo pittor Tomèa: e ritenùtala fico daddovero, del becco vi diede immantinenti una beccatuzza delle sue. Che in nella tela ne risultò un buco, o pertugio.
Questa favola ficaia ne dimostra: che qual non intende, nemmanco agisce a ragione.
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La pùzzola era per venir raggiunta e azzannata dal lupo rapace: a salvarsi, lanciò da poppavia uno de’ suoi temuti siluri allo stato gassoso: nel che fare è maestra.
Il lupo, mezzo morto dalla schifenza, desistette dall’inseguirla.
Da alcuni contadini fu veduto a vomitare succhi gastrici, e un buon poco di bile, a fiotti, nel vento, mentreché andava miseramente sclamando: “quanto mai!”
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Il porcello, venuto nel morir la state alle querci, appiè la reina loro v’incontrò un boleto tutto ritto e scarlatto: perlocché accostati a quella invereconda porpora i duo buchi del grifo gli bofonchiò a livello: “Io vo a tartufi”.
Questa favola ne ammonisce: che ad esercitare la critica, il buon critico deve prendere esempio dal porcello.
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Un tedesco, bramoso di volgere a suo idioma una lirica, la qual s’apre: “Onde venisti?”, andava interrogando l’autore se “Onde” potesse voltarsi per l’appunto con “Wellen”.
L’autore che si ritrovava con l’ipocondri a mal modo, rispuose: “No. Onde venisti significa: da che parte sei venuta, o venuto”.
“Ach so!”, fece il buon tedesco.